martedì 26 dicembre 2006

Soffocare

La Mamma gli racconta che una volta nell'antica Grecia c'era una ragazza bellissima, figlia di un vasaio. (...)
Sulla via del ritorno sono usciti dall'autostrada e hanno comprato una bomboletta di vernice nera.
E dopo tanto correre di qua e di là, eccoli qui: nel cuore del nulla e della notte.
Adesso, da dietro le sue spalle lo stupido ragazzino sente il rumore della madre che scuote la bomboletta di vernice, la pallina dentro la bomboletta che sbatte su e giù, e la Mamma gli dice che l'antica ragazza greca era innamorata di un giovanotto.
«Ma il giovanotto veniva da un altro paese, e doveva tornarci» dice la Mamma.
C'è una specie di sibilo, e il ragazzino sente odore di vernice spray. Il motore del pulmino cambia suono, qualcosa al suo interno fa
clunk, comincia a girare più veloce e a fare più rumore, e il pulmino dondola un po' sui pneumatici.
E così, l'ultima sera che la ragazza e il suo innamorato avrebbero dovuto passare insieme, racconta la Mamma, la ragazza portò con sé un lume e lo sistemò in modo che proiettasse l'ombra del suo innamorato sul muro.
Il sibilo della bomboletta si ferma e poi riparte. C'è un sibilo breve, poi un sibilo lungo.
E la Mamma racconta che la ragazza disegnò il contorno dell'ombra del suo innamorato, per avere qualcosa che le ricordasse il suo aspetto per sempre, qualcosa che documentasse quel preciso istante, l'ultimo che trascorrevano insieme.
Il nostro piccolo piagnone continua a fissare le luci dei fanali. Gli occhi gli si inumidiscono, e quando li chiude vede la luce splendere rossa attraverso le sue palpebre, attraverso la sua carne e il suo sangue.
E la Mamma racconta che il giorno dopo l'innamorato non c'era più, mala sua ombra era ancora lì.
Per un secondo, il ragazzino si volta verso il punto in cui la Mamma sta disegnando il contorno della sua stupida ombra sulla parete di roccia, solo che lui è così lontano che la sua ombra si estende di almeno trenta centimetri sopra la testa della madre. Le sue braccine esili sembrano enormi. Le gambette tozze si allungano. Le spalle mingherline si allargano.
E la Mamma gli dice: «Non guardare. Non muovere un muscolo, che mi rovini il lavoro».
E quel cretinetto impiccione si volta di nuovo a fissare la luce dei fanali.
La bomboletta di vernice sibila, e la Mamma dice che prima dei Greci l'arte non esisteva. È così che hanno inventato la pittura. Gli racconta la storia di come il padre della ragazza usò la sagoma sul muro per modellare una versione in creta del giovanotto, e così fu inventata la scultura.
Senza scherzi, la Mamma gli disse queste esatte parole: «L'arte non nasce mai dalla felicità».
Fu allora che nacquero i simboli.
Il ragazzino se ne sta impalato, e adesso trema in quella luce accecante, cerca di non muoversi, e la Mamma continua il suo lavoro, spiegando all'ombra gigante che un giorno sarà lei a insegnare alla gente tutto quello che la Mamma le ha insegnato. Un giorno diventerà un medico e salverà le persone. Gli restituirà la felicità. O qualcosa ancora meglio della felicità: la pace.
(...)
Le braccia nude del ragazzino tremano di freddo.
E la Mamma disse: «Controllati, porca miseria. Sta' fermo, che sennò rovini tutto».
E il ragazzino cercò di sentire caldo ma, per quanto splendesse, la luce dei fanali non emanava calore.
«Devo disegnare una sagoma precisa» disse la Mamma. «Se tu tremi, verrai fuori tutto confuso.»
(...)
E la Mamma dice: «Perciò sta' fermo, se non vuoi prenderti una sculacciata».
E sicuro come l'oro che quel marmocchio una bella sculacciata se la meritava. Si meritava tutto ciò che gli è successo. Perché lui, quel piccolo burino illuso, pensava davvero che lo aspettasse un futuro migliore. Bisognava solo lavorare abbastanza. Imparare abbastanza. Correre abbastanza veloce. Tutto sarebbe andato per il meglio, e alla fine la vita gli avrebbe dato qualcosa.
Il vento soffia e fa cadere dagli alberi fiocchi di neve asciutta, e ogni fiocco gli sferza le orecchie e le guance. E altra neve gli si scioglie tra i lacci delle scarpe.
«Vedrai» dice la Mamma, «che sarà valsa la pena di soffrire un pochettino.»
Quella era una storia che avrebbe potuto raccontare ai suoi figli. Un giorno.
La ragazza antica, gli racconta la Mamma, non rivide mai più il suo innamorato.
E il ragazzino è tanto stupido da pensare che un quadro o una scultura o un racconto possano in qualche modo rimpiazzare le persone a cui vuoi bene.
E la Mamma dice: «Hai un così bel futuro davanti.»
Difficile bersela, ma stiamo pur sempre parlando dello stesso stupido, ottuso, ridicolo ragazzino che è rimasto lì a tremare, a strizzare gli occhi contro il bagliore dei fanali e il ruggito del motore, e che pensava che il futuro fosse meraviglioso. Immaginati una persona che cresce tanto stupida da non sapere che la speranza non è che una delle tante fasi che prima o poi si superano. Che davvero ha pensato fosse possibile fare qualcosa, una cosa qualsiasi, che durasse per sempre.
Ci si sente stupidi anche solo a ricordare tutto questo. C'è da stupirsi che uno così sia sopravvissuto tanto a lungo.

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