lunedì 31 agosto 2009

mare dentro

A me ricordi il mare
e non per le vacanze
che abbiamo fatto insieme

Ma per il tuo ondeggiare
tra il gesto di chi afferra
e quello di chi si trattiene
...

Mi è tornata in mente questa canzone.
Diverse volte in pochi giorni.
Forse sono solo troppo severa o troppo cinica (me l'avete già ripetuto un sacco di volte, ora basta, grazie).
O è che vedo negli altri il riflesso di me stessa? Riflesso di qualcosa che cerco di seppellire e nascondere e uccidere.
Una versione musical-popolare del cuore rivelatore del vecchio Edgar Allan?
Non so.
A me ricordi il mare...già già. Che poi, a me il mare fa anche un po' paura, non dimentichiamolo.
Ma è così. Non faccio altro che vedere questo, ovunque, maree che afferrano e si trattengono.
Come se non sapessero fare altro. Come se non sapessero prendere una decisione, fare una scelta.
Qual è la cosa giusta?
E perchè mi sembra di non vedere altro che ondeggiamenti, oscillazioni intorno a gesti che vengono compiuti a metà per poi pentirsi sia di averli iniziati che di non averli compiuti.
Oggi avrei voglia di cambiare di posto con chi siede all'altro lato della scrivania..e fare questa domanda. Chissà se qualcuno ha una risposta per me.
In questo momento sono sola, non posso pensare che il mare sia altrove.
Questa inquietudine che sento, la paura di aver già sbagliato TROPPO, di avere preso l'ennesima piccola decisione sbagliata...anche io, a me ricordo il mare.
E mi odio. Quando sarà che impareremo, che imparerò, a non chiuderci da soli le porte in faccia per paura che lo faccia qualcun altro?

giovedì 27 agosto 2009

esattezza

Mi manchi da morire.
Scelgo le parole con cura.
Mi manchi. Da morire.
E dire che è una frase così abusata. Verrebbe da dire che ce ne sono sicuramente mille altre, migliori, meno consumate.
Ma non è così.
Questa ha l'esattezza della semplicità.
Sento la tua mancanza come un dolore sordo e oscillante, come un'onda che a volte si ritrae e poi ritorna con fragore.
Sento la tua mancanza in un modo che mi avvelena.
Mamma dice che sono dimagrita. E. mi domanda se sono gli strascichi del mostro, o i tuoi.
E. dice che, nella sua mente, tu e il mostro siete quasi una cosa sola, dice che nei miei occhi si è spenta una lucina.
Lo so. Me ne accorgo perfettamente ogni giorno, allo specchio.
D'altronde le parole hanno un peso. Mi manchi da morire. Qualcosa si è spento.
L'ho sentito distintamente, mentre lottava per sopravvivere, come un gattino che affoga tenuto sott'acqua da mani più grandi di lui.
Ho sentito, e non sono riuscita a salvarla, quella lucina. Forse non ho nemmeno voluto, non lo so.
Ho lasciato che si affievolisse e si esaurisse.
Forse dentro di me speravo che fosse sufficiente. Che bastasse.
Era il mio sacrificio agli dei, cedere una parte di me per salvarmi.
Credevo avrebbero accettato lo scambio. Che mi avrebbero privato DEL TUTTO della sensibilità.
Anestesia totale. Per favore.
Era questo che chiedevo quando ho lasciato affogare la mia gioia di vivere.
Non è così. Lo sento, il freddo del vuoto dentro di me.
Non riesco nemmeno a spiegare a me stessa: sento il freddo, il dolore, la sensazione di perdita, la mancanza, tutto quel vuoto. E contemporaneamente, i cancelli si sono chiusi.
E' un vuoto che alimenta se stesso.
Si è spenta la fiaccola che indicava, a chi avesse voluto guardare bene, la strada per arrivare a me.
E' una sensazione semplice, anche questa. Pulita, precisa, limpida.
Non importa. Non mi interessa, lo so, lo sento, e ne prendo atto.
Non c'è più sentiero o strada per raggiungermi.
Mi manchi da morire. Mi manchi e qualcosa è morto. Fine della questione.

martedì 18 agosto 2009

Il mostro è morto. Viva il mostro?


40. Li hai contati sulla punta delle tue dita curate. Mentre mi ipnotizzavo sui riflessi dello smalto leggero, tu, diligente, contavi. 40.
Hai solo accennato una sgridata, un "...dirlo prima". Adesso siamo qui e a me viene da vomitare. Ancora.
Alla fine credo di essere felice, se così si può dire, di averti chiamata.
Anche i mostri hanno diritto a qualcuno che segua il loro funerale, dopotutto.
E poi, e poi mi rassicura pensare che nei prossimi mesi anche tu saprai. Che non dovrò fingere con te, per ogni pallore improvviso e per ogni "inspiegabile" fuga.
Adesso fa male. Dentro. Fuori.
Non so nemmeno distinguere quale sia uno e quale l'altro.
Adesso vorrei solo dormire.
40. che dire, sembra ieri, no?
Quando saranno altri 40, sarà autunno davvero.
La dottoressa dice che l'autunno è la nostra prossima meta.
Mi drogo di tè freddo alla menta, ormai è il mio rituale staccare le foglie una per una, sul terrazzo. Tu mi guardi e dici che così, con questo sole obliquo, mi si evidenziano le occhiaie e gli zigomi. Spostati da lì, mi dici, che sembri la morte in vacanza. Mi abbracci forte e i tuoi capelli mi finiscono in bocca e ho la scusa per scostarti è caldo e i tuoi capelli e torna dentro che arrivo dai.
Mi dispiace che ti preoccupi, ma a parte contare di nuovo fino a 40, ormai ci piace questo numero, non c'è molto altro.
Il mostro è lontano. Non è in condizioni di nuocere, nè di fare nient'altro.
Fa parecchio male. Ma lquesto lo sapevo già, dopotutto studiare a qualcosa è servito. Mi viene ancora un po' da vomitare.

Tu es vera spes mea.

Riposa (e lasciami) in pace, mostro.

sabato 15 agosto 2009

danni

Più di quanti immaginassi.
Come quando un corpo cade da un palazzo. che a volte da fuori neanche si vede tanto.
E dentro è una purea di ossa sangue carne cartilagini.
Uno schifo che mai.
Mi guardi e dici "non ti riconosco più". E' solo un mese, che non ci vediamo.
non mi riconosci?
cinica. acida come uno yogurt scaduto. nervi a fior di pelle. depressa.
Eppure da fuori, eppure da fuori sembravo la stessa.
E' strano sentirsi dire tutto questo, provare a negare, a schernirsi. ma no dai, sono io, sempre io, dai.
Poi a casa ci ripenso, mi guardo di soppiatto allo specchio.
Mi dico che ti sei sbagliata, che non sono così. Mi dico che sono sempre io, che sono il macigno che metabolizza tutto e va avanti.
E' bastata una telefonata, tra l'altro breve. Pochi minuti, e ho sentito la diga rompersi.
Sofia mi guarda, occhi tondi perplessi, mentre scoppio a piangere seduta sul tappeto.
Una telefonata del cazzo, di quelle che in condizioni normali mi avrebbero semplicemente fatto dire "mai un po' a fare in culo dai".
Il mondo mi è crollato sulla testa, non c'entrava più nulla, la telefonata.
Cosa è stato? Una parola? Un tono di voce? Cosa cazzo è stato?
Non accetto questa defaillance da me stessa.
Eppure devo ammetterlo, hai ragione tu.
Avevo sopravvalutato la mia resilienza.

Flash.
"...ti faccio solo una domanda professionale: secondo te come ho fatto a superare tutto questo così presto?"
"Devi avere una buona resilienza..."
Flash.

Ma brava la dottoressa. 0 su 2.

venerdì 14 agosto 2009

definizioni

Mi tornano in mente spesso le parole del mio amico scrittore:

"Non cercate a tutti i costi libertà e piacere in una stagione, per quanto questa stagione sia l'estate, per quanto questa estate sia caldissima e lunga, per quanto questo lungo sonno della fatica si dilati - come un ventaglio- in un 'assenza. Perchè questo è il vero senso della parola vacanza: assenza - vuoto - mancanza."

Sono circa due anni, che l'ho letto, "Diaro di bordo" .
E questa frase l'ho sempre avuta in mente, da allora. Eppure, da bravo stupido animaletto che sono, ogni tanto fingo che non sia vera.
Fa ancora caldo, qui.
Incontro persone per strada, mi guardano braccia e viso, "non sei abbronzata...non hai fatto ferie? una bella vacanza ogni tanto.."
No. Non sono abbronzata. Sì. Sono andata in ferie. Sì. Bella no, ma sicuramente grande, la vacanza, la mancanza, l'assenza.
Ma è colpa mia, che lo sapevo e fingevo di no. Dopotutto, la definizione era lì, luminosa nella mia memoria.
Ma a volte non vogliamo ricordare, non vogliamo sapere, non vogliamo vedere.
Ma anche la schifosa estate, prima o poi se ne va.
Dopotutto, come diceva lui, tutto passa.
Anche l'estate sta finendo, o così dicono.
Stanotte mi sono addormentata con tutte le finestre aperte, e ho fatto la prima ronda notturna per chiuderle, 3 del mattino, la fottuta ora del lupo, l'ora in cui si è soli.
Si è soli e si sente il refolo gelido sotto il lenzuolo. Primo segnale di cedimento della stagione.
Sono rimasta in piedi qualche minuto, ad ascoltare gli odori di casa mia.
C. che ancora viene a farsi qui la doccia, ha lasciato aperto lo shampoo in bagno. Ecco il perchè di questo profumo di albicocca. Non è stato molto tempo fa. Ma ora non so più nulla.
A occhi chiusi, mi vedo davanti la pagina del libro.

È stato molto
tempo fa,

e ora

non so

più nulla

di lei

che una volta

era tutto.
Ma tutto

passa.


C'era anche il testo a fronte, ovvio, ma io Brecht l'ho sempre letto tradotto.
Con queste definizioni scrivo il mio personale dizionario: al momento sono presenti solo la voce "vacanza" e la voce "amore".

martedì 11 agosto 2009

Perfer et obdura. sì

Multa diuque tuli; vitiis patientia victa est;
cede fatigato pectore, turpis amor!
scilicet adserui iam me fugique catenas,
et quae non puduit ferre, tulisse pudet.
vicimus et domitum pedibus calcamus amorem;
venerunt capiti cornua sera meo.
perfer et obdura! dolor hic tibi proderit olim;
saepe tulit lassis sucus amarus opem.


Anche se continuo a non essere sicura che, un giorno, questo dolore, tutto questo dolore, mi sarà utile.
Spero solo, davvero, di non essere più un vitellino. Almeno questo.
averlo imparato.

lunedì 10 agosto 2009

pioggia

Oggi, dopo molti giorni, c'è stato un temporale.
Con tuoni, fulmini, tutta la scenografia.
Io sono uscita di casa, in pantaloncini e canottiera, a fiutare l'asfalto e la terra bagnati, a ricevere addosso le gocce, via via sempre più fredde e sferzanti.
Tu mi sei passato davanti.
Avevi una camicia grigia e un giornale sulla testa a ripararti inutilmente dall'acqua.
A parte alcuni dettagli che nell'avvicinarsi rendevano chiara la realtà, c'eri.
Eri tu. Mi è mancato il fiato per un attimo. Perchè nel passare mi hai anche guardata, sai?
Mah. Non importa.
D'improvviso, quel "tuo" sguardo, mi ha come aperto gli occhi.
E ho capito che lo avevi già fatto e che lo farai ancora.
E che ti farai probabilmente le stesse domande, dopo, guardandoti le mani sporche di sangue.
Si chiama natura? Carattere? Propensione? fottuta coazione a ripetere?
Mi rende un po' triste, questo pensiero.
O forse è solo che il temporale è durato troppo poco.E all'improvviso, così com'era arrivato, è scomparso, e la terra sembra già riarsa.
Vien da chiedersi se non mi sono immaginata anche la pioggia.

giovedì 6 agosto 2009

il mostro (4)

Mi ero illusa, in maniera del tutto arbitraria e stupida, che si fosse distratto.
Che io potessi riprendermi me stessa.
Sono io, a colpire il sacco. Io, a prendere più o meno la mira.
E invece all'improvviso torna il dolore, sordo, come se mi avessero colpita fortissimo all'inguine.
Come se mi avessero pugnalata.
Mi accartoccio su me stessa, le mani ancora bloccate dai guantoni, il sudore gelido già per la schiena.
Istintivamente mi guardo il ventre, a cercare la ferita, il sangue che scorre. Un dolore così non può che essere una pugnalata.
invece no, lo so.
E' "solo" il mostro. E' il mostro che mi prende a calci dall'interno.
Che morde, che graffia, che cerca di strapparmi pezzi di carne da dentro la pancia.
Non hai idea di quanto ti odio. mi odio. Dopotutto, chi ti ha creato?
Ma ricordati, mostro. E' iniziato il conto alla rovescia, per te.

martedì 4 agosto 2009

per favore

Smettela di dire cazzate.
Opinioni non richieste, risposte a domande che non ho fatto, teorie a seguito di indizi che vi siete creati da soli.
Per favore.
Smettetela.
Chiamatela pure solitudine, chiamatela se volete incapacità di amare, chiamatela carattere di merda, anche.
Non è un affare vostro.
Per favore.
Non continuate la vostra ridda di ipotesi cretine, lasciate perdere quelle che vi sembrano prove inconfuntabili.
Per favore.
C'è solo una persona che sa la verità. Al limite due. E sappiate che la seconda sono io.
Per favore.
Fatevi i cazzi vostri. O sarò costretta a reagire.

domenica 2 agosto 2009

in memoriam

Mamma dice sempre che faceva caldo.
Io ero piccolissima, con gli occhi a mandorlona, i buchini cicciosi sulle mani e i capelli lisci sempre sudati.
Io non ricordo nulla.
Mamma dice che faceva caldo, e che lei era in casa.
Aveva ancora i capelli permanentati, allora, era a casa da lavorare come ogni estate.
Mamma teneva la tv in bianco e nero accesa, a volte, per farsi compagnia.
Babbo sui treni ci lavorava, non ricordo dove fosse quel giorno.
Di certo,non a casa con noi. Se no mamma non si sarebbe preoccupata così.
Sarebbe stato terribile lo stesso, dice, ma in modo diverso, ammette.
Mamma dice che era spesso preoccupata, a quel tempo. In ansia. Gli anni di piombo, dice.
Noi eravamo familiari di un ferroviere, senza soldi era fondamentale quella tesserina che ti faceva viaggiare gratis sui treni.
Ci passavamo una vita, sui treni, noi.
Mamma si ricorda ancora della paura. Non c'erano i cellulari. Solo il telefono con la rotella che sentivi gracchiare ogni volta che facevi un numero.
Mamma dice che è stata un bruttissima giornata, anche se noi a Bologna per fortuna non c'eravamo.

sabato 1 agosto 2009

ritratto in seppia...


Nemmeno qui riesco a dormire, la notte. Non c'è abbastanza aria, qui dentro.
Questo piccolo spazio si satura di me, della mia presenza, del mio respiro.
Mi guardo intorno ed è strano, essere qui. 2 m x 5 circa di stanza, ci entri dentro e ti sembra di vedere tutto attraverso un filtro color seppia.
Il ventilatore antidiluviano che ronza inefficace, la carta da parati beige scrostata, il tavolino traballante, le lenzuola, persino il minuscolo lavabo...tutto ha questa patina polverosa ...seppia, appunto.
Mi sento una specie di detective privato di qualche film anni '40...o un killer di serie b.
Di quelli che vengono a nascondersi in un posto così, a sudare anche l'anima in attesa di fare il loro lavoro.
Se qualcuno entrasse in questo momento, chissà se vedrebbe anche me, in tinta seppia, mentre boccheggio cercando un punto del letto su cui rinfrescare la pelle sudata.
La finestrella, senza tende, dà direttamente sulla sua gemella di fronte, allungando un braccio potrei quasi toccarne il vetro. Immagino che al di là vedrei solo un altro letto in ferro battuto, un comodino zoppo e magari un ventilatore grigio e asmatico.
Mi hanno assicurato che non c'è nessuno, in quella stanza, non devo preoccuparmi di non avere tende nella mia.
Il problema non si pone, la finestra resta sempre spalancata. L'aria, in compenso, resta immobile.
Nemmeno qui, di notte, riesco a dormire.
Continuo a dare la colpa al caldo. Mi fa smaniare, il caldo.
Mi addormento e arrivano i sogni, sgradevoli. Ricomincio a sudare, torna il dolore, sordo.
Ho bisogno di fresco.
Mi hanno detto che posso usare il bagno quando voglio, che non c'è problema. Posso fare la doccia ogni volta che lo desidero.
Mi ha detto che a parte loro, ci sono solo io. Come se avessi un bagno solo mio, alla fine dei corridoi. Posso anche girare nuda se voglio, ma l'altro ha aggiunto che è meglio se mi avvolgo nell'asciugamano almeno, non si sa mai. Mi hanno dato anche l'asciugamano, subito dopo.
In effetti non incontro mai nessuno. La doccia è sempre asciutta, le porte tutte chiuse. Entro ed esco ed è come essere un fantasma.
Solo di notte, ogni tanto, sento qualcuno che tossisce, o che cammina piano, e sembra vicinissimo.
Se non facesse così caldo sono sicura che starei bene, qui.
E' tutto così chiuso e labirintico che i rumori si perdono prima di arrivare, si sente solo un continuo rumore di acqua...una tubatura che perde, o qualcosa del genere.
E dire che le stradine qui intorno, dal tramonto all'alba, rigurgitano puttane ad ogni angolo.
Quando il sole inizia a calare io esco, protetta dagli occhiali scuri, e il loro vociare mi abbaglia.
Ridono forte, qualcuna piange, mi guardano solo per un attimo e subito cercano altrove.
Io passo oltre, è facile cambiare zona e trovarsi nel niente, o in mezzo al traffico.
E' il bello di questo posto. Non ci vuol niente, a sparire.
Mi piace perdermi in mezzo alla gente che sta tornando a casa. Guardare le facce. Sentire le voci cercando di intuire di cosa parlano. Sono abituata a passare inosservata.
Se fossi un killer pagato da qualcuno, avrei un bersaglio a cui mirare, il mio sguardo non vagherebbe così, pigro, da un dettaglio all'altro.
Me ne starei chiusa dentro a riflettere, a ripassare orari e spostamenti. Sul letto, insieme ai pochi vestiti, i ferri del mestiere. Ho portato il caos con me, come sempre. Chissà come sarebbe, con anche una pistola a far parte dell'arredo.
Ho studiato a sufficienza la cartina, cammino per strada con l'aria di chi sa dove va, parlando il meno possibile, per non far trapelare l'accento italiano. Per ora funziona.
Le vecchie mura della città non sono lontane da qui, basta aver voglia di camminare qualche minuto in salita, e fino al tramonto è possibile farsi tutto il percorso qui sopra, un saliscendi di camminamenti in mezzo alle feritoie e ai resti delle torri. Pittoresco, in effeti.
Si vede quasi tutto, da qui sopra, i tetti delle case a perdita d'occhio, i parchi, le montagne sullo sfondo.
Arrivati quasi alla fine, prima di scendere, si aprono due strade.
Una è leggermente più ripida, finisce dritta nella vecchia zona del ghetto, ora formicaio di negozietti di bigiotteria scadente, kebab e tatuatori.
L'altra scende piano, verso un quartiere che conosco meno. Una zona più ricca, a giudicare dalle case, e da quel che occhieggia dalle finestre aperte.
Da questo punto si vede la terrazza, metri sotto, quasi nel centro un uomo col giornale, seduto su una panca a leggere. E' girato verso il sole, la sua testa pelata luccica di sudore, immagino un viso arrossato e il colletto della camicia un po' aperto, sotto.
Anche se si voltasse non credo potrebbe vedere molto, una fila di alberi nasconde chi si trova sulle mura alla vista di chi è sotto.
Penso oziosamente alla caducità della vita. Ai pochi secondi che ci vogliono per scendere nel ghetto, da lì, perdendosi nella folla.